per i giovani da 14 a 25 anni (non compiuti); per gruppi a partire da 15 persone; giornalisti iscritti all’albo con tessera di riconoscimento valida; possessori biglietto d’ingresso Museo Ebraico di Roma; possessori biglietto d’ingresso La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea; iscritti Consiglio Nazionale degli Architetti, previa presentazione del tesserino; iscritti Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto e familiari;dipendenti del Gruppo GSE, previa presentazione del tesserino aziendale; possessori della tessera socio Pro Loco; con esibizione della tessera o badge di riconoscimento: Accademia Costume & Moda, Accademia Fotografica, Atac, Arsity, Biblioteche di Roma, Casa Internazionale delle Donne, Centro Romano di Fotografia e Cinema, Centro Sperimentale di Cinematografia, ENAV, Enel, FAI – Fondo Ambiente Italiano, Feltrinelli, Francesco Olgiati ONLUS, IED – Istituto Europeo di Design, IN/ARCH – Istituto Nazionale di Architettura, Istituto Pantheon Design & Technology, ISFCI – Istituto Superiore di Fotografia, Sapienza Università di Roma, LAZIOcrea, Lazio Innova, NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, Officine Fotografiche, Ordine degli Assistenti Sociali, Ordine Psicologi Lazio, Palazzo delle Esposizioni, Romaeuropa Festival, RUFA – Rome University of Fine Arts, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Scuola Internazionale di Comics, Teatro Eliseo, Teatro Olimpico, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro di Roma, Università degli Studi di Roma Tor Vergata, Università UniCamillus a Roma, Youthcard. Acquista online / commissione € 1,50
valida il mercoledì dalle 14:00 per gli studenti delle scuole superiori e delle università, italiane e dell’Unione europea – previa esibizione del tesserino/libretto personale.
minori di 14 anni; disabili che necessitano di accompagnatore; dipendenti MiBACT; accompagnatori e guide turistiche dell’Unione Europea, munite di licenza (rif. circolare n.20/2016 DG-Musei); 1 insegnante ogni 10 studenti; membri ICOM; soci AMACI; giornalisti accreditati; possessori della membership card myMAXXI; studenti e ricercatori universitari di Arte e Architettura da martedì a venerdì (esclusi festivi); il giorno del tuo compleanno presentando un documento di identità; per l’ingresso alla galleria 1, da martedì a giovedì; per l’ingresso alla galleria 1 ogni terzo venerdì del mese, grazie ad Acea, dal 16 ottobre 2020 al 21 maggio 2021.
acquista e scegli la data e la fascia oraria della tua visita. Valido per l’ingresso alla mostra nello spazio extra MAXXI. Acquista online / commissione € 1,50
La Collezione di arte e architettura del MAXXI rappresenta l’elemento fondante del museo e ne definisce l’identità. Da ottobre 2015 è esposta in modo permanente con diversi allestimenti di opere.
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a cura di Margherita Guccione, Pippo Ciorra La mostra riapre al pubblico dal 18 giugno 2020 con un nuovo focus sulla casa post COVID-19
La celebre Villa Malaparte a Capri in dialogo con il rifugio sulle Dolomiti dei giovani DEMOGO; i Collegi universitari di Urbino di Giancarlo De Carlo con il progetto Sugar Hill di David Adjaye, ad Harlem; la Casa Baldi di Paolo Portoghesi a Roma con la casa “spaziale” di Zaha Hadid in Russia; Il Bosco Verticale di Stefano Boeri, a Milano con la Moryama House di Tokyo; la casa del film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Francesco Berarducci a Roma con un edifico progettato a Johannesburg da Jo Noero.
Sono alcuni dei duetti di AT HOME 20.20 Progetti per l’abitare contemporaneo, il nuovo allestimento della collezione di architettura del Museo, che racconta l’evoluzione del concetto di abitare dal dopoguerra a oggi, analizzato attraverso le opere dei grandi maestri del Novecento e delle nuove figure emergenti del panorama architettonico internazionale e rivisto, nella nuova versione 20.20, alla luce di come il Coronavirus abbia cambiato il nostro modo di vivere la casa.
Il progetto di allestimento punta inoltre a raccontare l’architettura anche attraverso una esperienza fisica e immersiva del visitatore con una serie di grandi installazioni in scala reale e padiglioni realizzati site specific da architetti italiani e internazionali.
Questa nuova versione si arricchisce di una sorta di “mostra nella mostra”, con opere di architettura e design, documenti, interviste, progetti video e un articolato programma di film screening. In mostra le voci e i volti di grandi architetti, quali Paolo Portoghesi, David Adjaye, Patrik Schumacher dello Studio Hadid e Maria Giuseppina Grasso Cannizzo che, in una serie di video-selfie, espongono idee, stati d’animo e riflessioni sull’impatto della pandemia sulla loro professione. Al design è affidato il racconto della natura flessibile e multiuso dello spazio domestico, con lavori di Achille ePier Giacomo Castiglioni, Ettore Sottsass, Joe Colombo, Bruno Munari, Verner Panton, insieme alle proposte più recenti stimolate dal lockdown.
DEMOGO, Bivacco Fanton, Dolomiti (BL), 2015. Ph. Pietro Savorelli
Apparentemente blasfemo, l’accostamento di Villa Malaparte di Adalberto Libera e del nuovo bivacco Fanton dei Demogo è allo stesso tempo un azzardo e un atto di fede nell’architettura italiana. Capace all’alba del moderno di posarsi come un’arca su Capo Massullo senza perdere né il suo carattere astratto né tantomeno quello vernacolare e mediterraneo, la nostra architettura è ancora capace oggi di calarsi con grazia e radicalità su una cima dolomitica, conservando sia l’aria di sfida che quella di rispetto. Torniamo indietro fino alla Villa Malaparte per riscoprire l’originalità sublime del paesaggio fisico e culturale italiano, la mettiamo vicino al Fanton perché anch’esso è una bellezza di impatto, che non cerca la mimesi. I due edifici registrano anche il cambiamento del tempo e delle culture. A Capri l’edificio si innesta con brutale sapienza sulla roccia; sulla Forcella Marmarole l’oggetto è appoggiato con leggerezza e uno strano senso di provvisorietà, che esalta il carattere paradossale del progetto.
È possibile pensare a Carlo Scarpa davanti alle opere di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo? Per molte cose i due non potrebbero essere più lontani: Veneto contro Sicilia, dettaglio infinito contro precisione austera nell’accostamento, poetica del frammento contro un orgoglioso senso di unità formale ed espressiva. Tuttavia hanno anche molto in comune: la natura individuale della loro ricerca, la passione per i materiali e le loro specifiche qualità, le occasioni frequenti, ma non necessariamente cercate, di lavorare alla piccola scala, la vicinanza con l’arte, la capacità di “progettare” anche i committenti, l’eco lontana di un’accuratezza giapponese. Come alcune realizzazioni scarpiane, la casa di Modica è un’opera nel senso più completo e artistico del termine, immaginata insieme al suo ardito metodo costruttivo e all’effetto che potrà avere sul paesaggio e sui suoi abitanti. Come sempre colpisce l’ampiezza del registro progettuale dell’autrice, tecnica come un ingegnere, sintetica e visionaria come un’artista astratta.
Luigi Pellegrin e Giuseppe Perugini sono due eroi della stagione più folle e interessante dell’architettura italiana, sempre sostenuti da Bruno Zevi, instancabili ideatori di opere proiettate nel futuro tecnico e sociale, insofferenti alle utopie “di carta”. In entrambi i casi si tratta di architetti portati soprattutto alla dimensione pubblica o perfino monumentale, fatta di scuole, edifici pubblici, complessi di dimensione rilevante. E’ quindi interessante vederli qui entrambi autocommittenti e “costretti” nella dimensione domestica, mentre cercano di svuotare l’architettura della casa di ogni aspetto intimista per trasformarla in un puro archetipo spaziale. Nella sua villa bifamiliare Pellegrin tratta la pianta come fosse una delle sue memorabili sezioni, la esplode, la immagina al centro di un sistema spaziale prospettico e infinitamente dinamico. La Casa Albero della famiglia Perugini – un’altra “casa come me” è costituita da struttura organica cui si addizionano cellule individuali con gli ambienti domestici, come un organismo cellulare a crescita illimitata.
Il dialogo tra la Pitch House di RICA Studio e l’Ambasciata italiana a Brasilia di Pier Luigi Nervi si svolge lungo le direzioni che da sempre avvicinano la modernità architettonica italiana e quella iberica, l’ostentazione del cemento mitigata dal carattere mediterraneo, la capacità di “lavorare” la luce, la chiarezza strutturale, ovvia per Nervi, sofisticata nel sovrapporre un corpo pesante a un telaio leggero per RICA. C’è poi un’assonanza topologica: entrambi gli edifici hanno due livelli, fronti lunghi e cementizi di tono pubblico, il piano terra permeabile e trasparente. L’Ambasciata accetta la sfida ipermodernista di Brasilia e si pone in sintonia con l’eroismo strutturale sudamericano, sollevandosi e trasformando i pilotis in plateali pilastri a grappolo. La residenza, gli uffici, i locali di rappresentanza occupano il piano sollevato, il paesaggio entra nello spazio tra i pilastri per disegnare un giardino. La Pitch House si raccoglie invece in uno spazio tutto costruito, assorbendo il paesaggio attraverso le grandi vetrate, la piscina, le verande che si sporgono verso la costa. Sono due spazi generosi, che si interrogano sugli aspetti meno privati dell’abitare.
Tra gli amori architettonici dichiarati di Zaha Hadid compariva sempre il barocco romano, la sua capacità di scolpire lo spazio urbano, la miscela irripetibile di solidità e leggerezza. Il suo progetto per il MAXXI è forse la testimonianza più esplicita di tale passione, che però continua a manifestarsi nei lavori più tardi e nella produzione attuale dello studio. Compare ancora, infatti, nella casa moscovita e nel modo caratteristico nel quale lo sviluppo dinamico delle forme curve si intreccia con le variazioni repentine di quota e di altezza. Inevitabile quindi viaggiare nel tempo e accostare il progetto dello studio Hadid al primo riuscitissimo omaggio alla tradizione barocca, vale a dire la Casa Baldi di Paolo Portoghesi, creativa nelle forme e negli spazi, tradizionale nei materiali. Il legame tra i due progettisti si fa più forte se si osserva il secondo progetto (non realizzato) per la stessa casa, slanciato in altezza, iperdinamico, arricchito da una complessa serie di rotazioni e articolazioni spaziali in verticale.
Le assonanze che percepiamo tra la casa di Franz Prati a Reggio Emilia e quella di Danilo Guerri a Recanati sono sottili e interessanti. Hanno a che fare con passioni simili per quel che riguarda i materiali antichi, segnatamente i mattoni, con una specie di familiarità cromatica vagamente rurale, con la dedizione assoluta alla forza del disegno. Per Prati, il disegno è ovviamente l’aspetto centrale della sua identità di architetto, una piattaforma semantica dove l’autore rende visibile non solo tutto ciò che sarà poi realizzato nell’edificio ma anche tutto quello che non sarà: soluzioni alternative, sviluppi impossibili, ripensamenti. Il progetto è qui lo snodo risolutivo tra il realismo dell’edificio compiuto e la radicalità dei disegni inziali. Anche Guerri però è sempre alla ricerca impaziente dell’“architettura più bella del mondo”, che per lui nasce dalla sommatoria di dettagli disegnati e variati mille volte, dall’uso “improprio” e autoriale di materiali tradizionali, dalla sfida a contesti morfologici quasi impossibili, come il fianco dell’ermo colle di Recanati che la casa discende piano dopo piano.
La villa presidenziale del Gombo è un progetto atipico per Monaco e Luccichenti. Sublimi progettisti di palazzine, uffici, aeroporti, i due progettisti romani si confrontano in questo caso con il tema della villa e con una forma architettonica semplice e pura come un quadrato vuoto al centro e sollevato. Gli autori concentrano tutta la loro attenzione su una forma geometrica minimale con una visione moderna della relazione tra corpo architettonico, suolo, storia e paesaggio. Analogamente la casa Guna dello studio cileno, pur se più piccola e inserita in un lotto più compresso e più condizionato da pendenze e alberature, insiste sullo stesso principio geometrico, si distribuisce in spazi regolari intorno ai lati di un patio quadrato, questa volta all’altezza delle stanze, poggiato su un plino grande come la corte centrale. La differenza sta soprattutto nel rapporto con i luoghi, aperto e pianeggiante in Toscana e ripido e costipato nel sud del Cile, e nell’uso conseguente dei materiali, più leggeri e trasparenti per il Gombo, solidi e protettivi per la Guna.
Sulla Schützenstrasse, nel suo ultimo progetto berlinese, Aldo Rossi traduce la sua passione per la città e per l’isolato urbano berlinese in un progetto maturo e disincantato, dove le facciate del blocco si frammentano in una sequenza di piccoli fronti indipendenti. La loro misura non corrisponde all’organizzazione interna dell’edificio, il loro linguaggio racconta epoche e momenti diversi, la loro apparenza non si traduce necessariamente in realtà strutturale. Rossi chiude la carriera concedendosi finalmente all’ironia e nascondendo, tra gli altri frammenti di facciata una campata di Palazzo Farnese. Meno ironici, ma altrettanto curiosi della storia gli Urbanus, autori cinesi di Vankle Tulou Housing, che la città devono costruirla più che integrarla, e che si ispirano direttamente a una spettacolare tipologia storica del sud della Cina, le case hakka. Si tratta di grandi complessi di forma circolare, con lo spazio centrale occupato da spazi comuni e corpi più bassi, dove il nucleo familiare si espande e si ramifica fino a diventare comunità.
La presenza ravvicinata di Giancarlo De Carlo e David Adjaye trova le sue ragioni in alcuni atteggiamenti progettuali che avvicinano molto i due autori. Per entrambi l’architettura non è che una paziente ricerca dell’equilibrio tra la passione pura per la forma e le esigenze di chi abita e conferisce con la sua vita stessa l’identità finale ai luoghi. De Carlo costruisce la sua Urbino sovrapponendo alla città storica i percorsi e le dinamiche di chi la abita oggi, dallo studente al turista architettonico al suo amico Sichirollo. Con Sugar Hill Adjaye costruisce nel cuore del capitalismo accelerato newyorchese un caso esemplare di welfare postmoderno, basato non solo sulla concessione di spazi e servizi, ma inserito – simile anche in questo alla Urbino di De Carlo – in un contesto di cultura e formazione. Entrambi rifiutano la “dittatura della linea di terra”, perforano piani e sezioni per distribuire il movimento e la luce. Entrambi hanno una fiducia “illuminata” nel potere dell’architettura e della formazione.
Il villino di Francesco Berarducci racconta nella sua stessa definizione tipologica la storia dell’architettura e dell’urbanistica del dopoguerra romano. Il tipo architettonico del villino – tre piani e il giardino intorno – è qui stirato in lungo e in largo, adattato a un terreno in pendenza, riscattato con la ricchezza nell’articolazione volumetrica, nei materiali e nei dettagli, nella disposizione interna, per trasformarsi in una palazzina quasi ideale. Anche Jo Noero, stessa longitudine, latitudini opposte, culture architettoniche molto distanti, sembra impegnato a definire un nuovo tipo di edificio residenziale urbano, alto (12 piani) e organizzato come un corpo in linea suburbano, ma più corto, con un’estensione di facciata più commisurata al centro-città. Comune ai due progetti, nonostante la distanza spazio-temporale, la fiducia assoluta nel disegno come regolatore dei rapporti tra l’edificio, il paesaggio, la città e la vita che si svolge all’interno.
Nella dialettica in divenire tra casa individuale e housing collettivo il Bosco Verticale di Stefano Boeri e la Moriyama House di Ryue Nishizawa occupano entrambe uno spazio intermedio, dove le tipologie e gli stili di vita si confondono e allo stesso tempo rappresentano una parte essenziale dell’identità dell’edificio. Più che una torre di abitazioni l’edificio di Boeri ambisce ad essere una sovrapposizione di ville ciascuna con il proprio giardino. Sono le ville sovrapposte già immaginate da Le Corbusier, qui tradotte in un’icona milanese ed ecologista. La Moriyama House è un piccolo miracolo giapponese, una casa-ritratto per un singolo abitante che si trasforma senza scarti in un mini-quartiere di piccole case isolate, dove ogni stanza, separata dalle altre, può trasformarsi in un’unità indipendente, disponibile ad affitti temporanei. L’edificio progettato da Studio Boeri raccoglie idealmente la città al suo interno, idealizzando il rapporto tra gli edifici, il cielo e il verde che loro compete. A Tokyo la casa esplode per farsi città, indifferentemente se ad abitarla c’è un singolo o un collage di individui di passaggio.
Da molti anni il Corviale di Mario Fiorentino non è solo un edificio: è un tema di sociologia urbana, un argomento utile ad alimentare battaglie culturali, politiche, estetiche, un dispositivo di produzione artistica e uno dei pochi simboli realizzati della via italiana all’utopia sociale, tema cruciale della ricerca sull’housing negli anni ’60. Da un po’ di tempo però il Corviale è anche un paradigma – caso-limite e standard allo stesso tempo – delle urgenze e delle potenzialità dell’edilizia residenziale suburbana italiana e non solo. Oltre che amare o odiare, l’edificio lungo un chilometro si può forse rigenerare, riciclare, completare, “rinverdire”, ricontestualizzare. Il senso di urgenza che viene dalla somma della sua dimensione fisica più quella dei suoi problemi ha così generato progetti e programmi di rigenerazione. Quelli di Laura Peretti per il ripensamento degli spazi di relazione e di Guendalina Salimei per la liberazione del quarto piano, qui esposti, alimentano non solo speranze di riqualificazione per gli abitanti e per la città ma portano anche argomenti interessanti a una discussione che coinvolge gran parte delle città europee, e che riguarda il futuro dei grandi quartieri residenziali modernisti, resti fascinosi e obsoleti di un altro welfare che bisogna in qualche modo incorporare nello spazio contemporaneo.
Architecture Film Summer School
Nell’ambito delle attività della rete europea Future Architecture il MAXXI ha invitato cinque videomakers selezionati attraverso una open call a produrre dei video di architettura che affrontassero i temi legati al rapporto tra la pandemia e lo spazio abitato. All’interno di un workshop online durato tutto il mese di giugno gli autori hanno prodotto lavori incentrati sull’isolamento domestico, sull’impatto del lockdown sulle relazioni affettive e su quelle sociali, sul ruolo inquietante assunto dallo spazio pubblico “vuoto” nei mesi caldi della pandemia.
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in collaborazione con Copenhagen Architecture Festival nell’ambito di Future Architecture
co-finanziato dal Programma Creative Europe dell’Unione Europea
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a cura di Margherita Guccione, Pippo Ciorra
La mostra riapre al pubblico dal 18 giugno 2020 con un nuovo focus sulla casa post COVID-19
La celebre Villa Malaparte a Capri in dialogo con il rifugio sulle Dolomiti dei giovani DEMOGO; i Collegi universitari di Urbino di Giancarlo De Carlo con il progetto Sugar Hill di David Adjaye, ad Harlem; la Casa Baldi di Paolo Portoghesi a Roma con la casa “spaziale” di Zaha Hadid in Russia; Il Bosco Verticale di Stefano Boeri, a Milano con la Moryama House di Tokyo; la casa del film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Francesco Berarducci a Roma con un edifico progettato a Johannesburg da Jo Noero.
Sono alcuni dei duetti di AT HOME 20.20 Progetti per l’abitare contemporaneo, il nuovo allestimento della collezione di architettura del Museo, che racconta l’evoluzione del concetto di abitare dal dopoguerra a oggi, analizzato attraverso le opere dei grandi maestri del Novecento e delle nuove figure emergenti del panorama architettonico internazionale e rivisto, nella nuova versione 20.20, alla luce di come il Coronavirus abbia cambiato il nostro modo di vivere la casa.
Il progetto di allestimento punta inoltre a raccontare l’architettura anche attraverso una esperienza fisica e immersiva del visitatore con una serie di grandi installazioni in scala reale e padiglioni realizzati site specific da architetti italiani e internazionali.
Questa nuova versione si arricchisce di una sorta di “mostra nella mostra”, con opere di architettura e design, documenti, interviste, progetti video e un articolato programma di film screening. In mostra le voci e i volti di grandi architetti, quali Paolo Portoghesi, David Adjaye, Patrik Schumacher dello Studio Hadid e Maria Giuseppina Grasso Cannizzo che, in una serie di video-selfie, espongono idee, stati d’animo e riflessioni sull’impatto della pandemia sulla loro professione. Al design è affidato il racconto della natura flessibile e multiuso dello spazio domestico, con lavori di Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Ettore Sottsass, Joe Colombo, Bruno Munari, Verner Panton, insieme alle proposte più recenti stimolate dal lockdown.
DEMOGO, Bivacco Fanton, Dolomiti (BL), 2015. Ph. Pietro Savorelli
SEZIONI DI MOSTRA
LIBERA/DEMOGO
SCARPA/GRASSO CANNIZZO
PERUGINI/PELLEGRIN
NERVI/RICA
PORTOGHESI/HADID
GUERRI/PRATI
MONACO LUCCICHENTI/PEZO VON ELLRICHSHAUSEN
ROSSI/URBANUS
DE CARLO/ADJAYE
BERARDUCCI/NOERO
BOERI/NISHIZAWA
IL CORVIALE
Architecture Film Summer School